Google si oppone alla censura dell’UE: no al fact-checking nei risultati di ricerca e su YouTube
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L'”effetto Trump” e la fine della guerra all’informazione indipendente
In una mossa che ha suscitato polemiche e preoccupazioni, Google ha informato l’Unione Europea che non integrerà il fact-checking nei suoi risultati di ricerca o nei video di YouTube, nonostante le nuove norme dell’UE mirate a contrastare la disinformazione. La decisione, annunciata in una lettera inviata il 16 gennaio dal presidente degli affari globali di Google, Kent Walker, segna una frattura sempre più profonda tra le grandi aziende tecnologiche e i regolatori europei su come gestire i contenuti online.
Il contesto: il Codice di condotta UE sulla disinformazione
L’UE ha aggiornato il suo Codice di condotta sulla disinformazione, parte del più ampio Digital Services Act (DSA), per richiedere alle piattaforme tecnologiche di adottare misure più stringenti contro la diffusione di informazioni false. Tra queste, l’obbligo di integrare i risultati del fact-checking nei risultati di ricerca e nei video di YouTube, nonché di incorporare il fact-checking negli algoritmi di classificazione dei contenuti.
Tuttavia, Google ha respinto queste richieste, sostenendo che tali misure non sono “appropriate o efficaci” per i suoi servizi. Nella lettera inviata a Renate Nikolay, vicedirettrice della Commissione europea, Walker ha affermato che gli strumenti esistenti di Google, come la filigrana SynthID e le divulgazioni sull’intelligenza artificiale su YouTube, sono sufficienti per affrontare la disinformazione.
La posizione di Google: “Il nostro approccio funziona”
Walker ha difeso la decisione di Google, sottolineando che l’attuale sistema di moderazione dei contenuti ha dimostrato di funzionare, soprattutto durante il “ciclo senza precedenti di elezioni globali” del 2023. Ha anche citato una funzionalità introdotta su YouTube lo scorso anno, che consente agli utenti di aggiungere note contestuali ai video, paragonandola al sistema Community Notes di X (ex Twitter).
“Il nostro attuale approccio alla moderazione dei contenuti funziona”, ha scritto Walker, aggiungendo che Google continuerà a investire in strumenti per migliorare la qualità delle informazioni senza ricorrere a un fact-checking integrato.
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Le preoccupazioni: disinformazione e elezioni europee
Il rifiuto di Google arriva in un momento critico, con l’Europa che si prepara a una serie di elezioni cruciali nel 2024, tra cui quelle parlamentari in Germania, Polonia e Repubblica Ceca. Questi appuntamenti elettorali rappresentano un banco di prova per la capacità delle piattaforme tecnologiche di gestire la disinformazione senza una supervisione normativa più rigorosa.
I critici temono che la decisione di Google possa esacerbare la diffusione di informazioni false, soprattutto in un contesto in cui la disinformazione online è sempre più utilizzata per influenzare l’opinione pubblica e manipolare i risultati elettorali. Alcuni esempi recenti, come i presunti tentativi di Google di influenzare le elezioni del 2024 negli Stati Uniti, hanno ulteriormente alimentato queste preoccupazioni.
La tendenza delle Big Tech: meno fact-checking, più crowdsourcing
La mossa di Google non è isolata. Anche altre grandi aziende tecnologiche, come Meta, hanno ridotto i loro sforzi di fact-checking. Meta, ad esempio, ha annunciato la fine del suo programma di fact-checking di terze parti su Facebook, Instagram e Threads, optando invece per un modello basato sul crowdsourcing simile a quello di X.
Mark Zuckerberg, CEO di Meta, ha giustificato questa decisione affermando che i fact-checker sono diventati “troppo politicamente parziali”, danneggiando la fiducia degli utenti. “Ciò che è iniziato come un movimento per essere più inclusivi è stato utilizzato per mettere a tacere le opinioni ed escludere le persone con idee diverse”, ha dichiarato in un annuncio video.
Il fallimento dell’autoregolamentazione
Il Codice di condotta sulla disinformazione dell’UE, introdotto nel 2018 come quadro volontario per l’autoregolamentazione delle aziende tecnologiche, ha mostrato limiti evidenti. Uno studio del 2024 pubblicato su Internet Policy Review ha rilevato che le aziende erano “solo parzialmente conformi” al codice, con report spesso privi di dettagli o basati su dati incompleti.
Di fronte a questa mancanza di trasparenza, la Commissione europea ha spinto per trasformare le linee guida volontarie in norme obbligatorie ai sensi del DSA. Tuttavia, il rifiuto di Google di conformarsi a queste regole solleva interrogativi sull’efficacia delle nuove normative.
Il mio parere
La decisione di Google di ignorare le richieste dell’UE rappresenta una sfida aperta alle autorità regolatorie e potrebbe avere implicazioni significative per il futuro della lotta alla disinformazione. Se da un lato le aziende tecnologiche sostengono che gli strumenti esistenti sono sufficienti, dall’altro i critici temono che la mancanza di un fact-checking integrato possa aprire la strada a una maggiore diffusione di informazioni false, soprattutto in contesti sensibili come le elezioni.
Dal mio personalissimo punto di vista però, la realtà è ben diversa. L’Unione Europea si ostina a voler bloccare l’informazione indipendente, ovvero l’informazione libera, quella non soggetta ai rigidi dettami delle propagande governative (e non solo). Eliminare il fact-checking non significa affatto favorire il boom delle fake news, ma al contrario, non mettere un freno a quelle verità che per taluni sono troppo scomode!
Il (nuovo) presidente degli Stati Uniti Donald Trump, sembra non essere tanto d’accordo con questa censura spietata, e questo può non piacere solo a chi ha qualcosa da nascondere! A chi dare ragione?
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