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Decolla l’orbital computing: i data center dell’IA pronti a lasciare la Terra

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L’idea sembra uscita da un romanzo di fantascienza, ma sta rapidamente diventando un piano industriale concreto: spostare i data center dell’intelligenza artificiale nello spazio per ridurre il consumo energetico sulla Terra e aggirare i limiti sempre più stringenti delle reti elettriche terrestri. Un cambio di paradigma che sta attirando capitali, nomi pesanti della Silicon Valley e ambizioni che guardano direttamente all’orbita bassa terrestre.

Negli ultimi mesi, il cosiddetto orbital computing ha iniziato a prendere forma come possibile risposta a una domanda energetica ormai fuori controllo. L’IA divora elettricità, i data center crescono a ritmi vertiginosi e le infrastrutture terrestri faticano a stare al passo. Da qui nasce l’idea radicale: portare i chip dove l’energia è virtualmente illimitata, cioè nello spazio.

L’idea di Bhatt e la corsa allo spazio computazionale

Uno dei promotori più convinti di questa visione è Baiju Bhatt, cofondatore di Robinhood, che nel 2025 ha lanciato la startup Aetherflux. L’obiettivo è ambizioso: sviluppare satelliti dotati di chip di intelligenza artificiale capaci di sfruttare direttamente l’energia solare nello spazio e costruire, a partire dal 2027, una costellazione di migliaia di nodi computazionali indipendenti in orbita.

Secondo Bhatt, la finestra di opportunità è chiara. L’Agenzia Internazionale per l’Energia prevede che il consumo dei data center terrestri raddoppierà entro cinque anni, con una crescita annua attorno al 30%, spinta quasi interamente dall’IA. Continuare a scaricare questa domanda su reti elettriche già sature rischia di diventare insostenibile, sia economicamente che politicamente. In orbita, invece, i pannelli solari possono funzionare senza interruzioni, senza nuvole, senza notte e senza competizione con altri usi civili dell’energia.

Google, SpaceX e Bezos non stanno a guardare

La scommessa di Aetherflux non è un caso isolato. Colossi tecnologici e spaziali stanno muovendosi nella stessa direzione. Google ha avviato il Project Suncatcher, un’iniziativa che prevede il lancio di satelliti equipaggiati con unità di elaborazione tensoriale per potenziare l’uso dell’IA direttamente dallo spazio.

Anche figure storiche del settore stanno cambiando rotta. Eric Schmidt ha acquisito una quota di maggioranza di Relativity Space proprio con l’obiettivo di portare data center in orbita. Nel frattempo, secondo indiscrezioni riportate dal Wall Street Journal, sia SpaceX di Elon Musk sia Blue Origin di Jeff Bezos stanno investendo risorse in progetti simili, con orizzonti temporali che guardano al 2030 e oltre.

Il messaggio è chiaro: la fame di calcolo dell’IA non può più essere soddisfatta solo sulla Terra.

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Il nodo dei costi e le sfide ingegneristiche

Nonostante l’entusiasmo, la strada è tutt’altro che semplice. Come ha sottolineato l’analista spaziale Chris Quilty, citato da Forbes, il vero ago della bilancia resta il costo di lancio. Finché mandare un chilogrammo in orbita costerà migliaia di dollari, il modello economico rimarrà fragile.

Philip Johnston, CEO della startup Starcloud, sostiene però che con lanci più economici – attorno ai 200 dollari al chilogrammo – il costo dell’energia potrebbe scendere sotto un centesimo per kilowattora, un valore irraggiungibile per qualsiasi data center terrestre. Il problema è che oggi anche i vettori più avanzati, come il Falcon Heavy, viaggiano ancora attorno ai 1.500 dollari al chilogrammo.

A questo si aggiungono sfide tecniche tutt’altro che marginali. Raffreddare chip potenti nello spazio, dove non esistono aria né convezione, richiede radiatori enormi, leggeri e costosi. Serve inoltre una protezione efficace contro le radiazioni cosmiche, che aumenta peso, complessità e costi operativi di ogni singolo satellite.

Numeri impressionanti e ritorni ancora incerti

Aetherflux ha già messo sul tavolo dati concreti. Ogni satellite dovrebbe essere dotato di pannelli solari da 93 metri quadrati, sufficienti ad alimentare circa dieci GPU, e di radiatori da 46 metri quadrati per evitare il surriscaldamento. L’obiettivo dichiarato è arrivare a migliaia di unità operative entro la fine del decennio.

Finora la startup ha raccolto 90 milioni di dollari e raggiunto una valutazione di 270 milioni, secondo PitchBook. Ma il grande interrogativo resta aperto: quando – e se – questi investimenti si tradurranno in profitti reali.

Spazio affollato, regole incerte e nuove tensioni ambientali

Alle difficoltà tecniche ed economiche si sommano le preoccupazioni ambientali e normative. L’orbita bassa terrestre, tra i 160 e i 1.930 chilometri di altitudine, è già congestionata da migliaia di satelliti e detriti spaziali. Aggiungere intere costellazioni di data center rischia di peggiorare il problema della spazzatura spaziale e aumentare l’inquinamento luminoso, complicando il lavoro degli astronomi.

C’è poi il nodo operativo: intervenire su hardware guasto in orbita è complesso, costoso e spesso impossibile, soprattutto se confrontato con infrastrutture terrestri già ammortizzate e facilmente manutenibili. Eppure, paradossalmente, costruire nuovi data center sulla Terra è diventato sempre più lento. Tra vincoli ambientali, autorizzazioni locali e opposizioni politiche, l’avvio di una struttura può richiedere fino a otto anni.

In questo scenario, l’idea di lanciare GPU nello spazio e metterle in funzione quasi immediatamente appare, agli occhi di molti investitori, sorprendentemente pragmatica.

Il futuro dell’IA potrebbe non essere terrestre

Jeff Bezos e altri leader del settore sono convinti che, nel prossimo decennio, una parte significativa dei nuovi data center per l’intelligenza artificiale nascerà fuori dal pianeta. Se questa visione si realizzerà davvero, l’IA non sarà solo una tecnologia che trasforma il mondo: diventerà anche una forza capace di ridefinire il rapporto tra Terra e spazio.

Il calcolo orbitale non è più un’ipotesi lontana. È una scommessa ad altissimo rischio, ma anche una delle poche risposte radicali a un problema che cresce più in fretta di qualsiasi rete elettrica. E questa volta, la soluzione potrebbe davvero arrivare dall’alto.

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