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Francesca Barra vittima di deepfake: quando l’intelligenza artificiale diventa un’arma contro la dignità

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La giornalista e scrittrice Francesca Barra ha lanciato un grido d’allarme che va ben oltre la sua vicenda personale: su un sito per adulti circolano immagini di lei nuda generate con l’intelligenza artificiale, create senza consenso. “Non sono io — scrive con amarezza — ma qualcuno ha deciso di costruire quella menzogna per ottenere attenzione e insinuare il dubbio che potessi essermi mostrata in quel modo negli ambienti in cui lavoro”.

È un racconto che lascia sgomenti. Dietro l’apparente curiosità tecnologica del deepfake — la manipolazione di volti e corpi attraverso l’IA — si nasconde una nuova forma di violenza digitale che oggi può colpire chiunque, anche personaggi pubblici abituati ai riflettori. Ma per chi non ha voce o mezzi, il danno può essere devastante e irreparabile.

“Non è arte, è abuso digitale”

Barra racconta di aver provato “imbarazzo e paura” al pensiero che i suoi figli potessero vedere quelle immagini false, create per alimentare curiosità morbose e insinuazioni tossiche.
Non è arte, non è una scelta personale — denuncia — ma una manipolazione pericolosa, perché altera la realtà senza consenso della diretta interessata”.

Parole che suonano come un manifesto di denuncia contro una cultura che troppo spesso confonde la tecnologia con il diritto di invadere la vita altrui. “Chi crea, diffonde o ospita questo materiale commette un reato, ma le leggi, la rete e le piattaforme arrivano sempre dopo”, scrive ancora.

L’altra faccia dell’intelligenza artificiale

Il caso Barra mette in luce la faccia oscura dell’IA generativa: un’arma potente nelle mani sbagliate, capace di distruggere la reputazione di una persona in pochi clic.
Le immagini deepfake non richiedono competenze avanzate: oggi bastano pochi secondi e strumenti online per sovrapporre un volto reale su corpi di altre persone o per creare nudità completamente inventate ma perfettamente realistiche.

Il risultato è una pornografia non consensuale che si diffonde rapidamente, difficile da bloccare e quasi impossibile da cancellare del tutto.
Secondo un recente rapporto di Deeptrace Labs, oltre il 95% dei deepfake presenti sul web ha contenuti sessuali, e in più del 99% dei casi le vittime sono donne. Una statistica che conferma la dimensione di genere di questo fenomeno: non è solo una violazione della privacy, è una violenza strutturale.

Fonte: Instagram
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“Un furto dell’immagine, del corpo, della libertà”

Nelle sue parole c’è tutto il peso di una riflessione matura: “È un furto dell’immagine, del corpo, della libertà di essere viste come si è, non come un algoritmo decide di rappresentarci.
Barra, che ha da poco discusso una tesi in criminologia sul cyberbullismo, lega questo caso al problema più ampio della cultura digitale tossica:

“Il cyberbullismo non è un problema fra ragazzi, ma uno specchio delle nostre fragilità collettive. Eccoci qui, adulti, a dare come sempre il pessimo esempio.”

Il punto è cruciale: la tecnologia non è neutra. Dipende da chi la usa, e con quale scopo. Quando strumenti nati per creare arte o innovazione vengono piegati a scopi di umiliazione, ricatto o diffamazione, il confine tra progresso e barbarie digitale si fa sottile.

L’urgenza di una legge e di una cultura del rispetto

In Italia, la diffusione non consensuale di immagini intime è già punita dalla legge sul revenge porn, ma i deepfake non sempre rientrano in questa categoria, perché si tratta di contenuti “falsi”, non reali.
Serve quindi un aggiornamento normativo capace di riconoscere il danno d’immagine e psicologico anche quando le immagini non sono autentiche.

Al tempo stesso, la lotta deve essere culturale.
Serve una nuova alfabetizzazione digitale che insegni a distinguere il vero dal falso, a non condividere materiale sospetto e a riconoscere la violenza anche quando è “digitale”.

Un allarme che riguarda tutti

“Questa non è solo la mia storia — conclude Barra — ma il preludio di un pericolo che riguarda tutti. Nessuna donna, nessuna ragazza dovrebbe trovarsi di fronte a un corpo inventato e sentirsi ferita due volte: nell’immagine e con l’impunità.”

Il suo caso diventa così un simbolo: un monito su come la libertà e la dignità possano essere violate in silenzio, con un clic, e su quanto sia urgente restituire alla tecnologia il suo senso originario — quello di servire l’uomo, non di distruggerlo.

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