Il blocco dei siti pirata finisce sempre per fare danni. Anche quando lo fai da solo

La storia si ripete sempre allo stesso modo: qualcuno pensa che bloccare siti, domini o contenuti sia la soluzione magica a tutti i problemi del web. Pirateria? Blocchiamo. Tracker invasivi? Blocchiamo. Malware? Blocchiamo tutto.
Il risultato, però, non cambia mai: prima o poi qualcosa va storto. Sempre.
L’ultima dimostrazione arriva da una nuova blocklist “antipirateria”, nata con le migliori intenzioni: proteggere gli utenti e impedire l’accesso ai siti pirata. E invece ha finito per confermare quello che molti dicono da anni: il blocco indiscriminato è una lama che taglia da entrambi i lati. E quando sbaglia, sbaglia alla grande.
Il web oggi è migliore di ieri, ma i rischi sono più complicati
Negli ultimi anni Internet è diventato più sicuro e più maturo. Eppure, in modo quasi paradossale, le preoccupazioni su privacy, sicurezza e censura non sono mai state così alte.
I governi vengono continuamente spinti a intervenire, a “fare qualcosa”. Ma quando dai in mano a un governo lo strumento del blocco facile, la tentazione di usarlo ovunque diventa troppo forte.
Una volta normalizzato il concetto di blocco, tutto può essere etichettato come “pericoloso” o “illegale”.
La pirateria, sì. Ma anche informazione scomoda, satira, opinioni indesiderate. E tra una misura di sicurezza e un eccesso di zelo, il confine inizia a scomparire.
La verità è che il blocco è diventato qualcosa di comune, accettato quasi senza domande. E proprio per questo oggi più che mai bisogna osservare cosa succede quando qualcosa va storto — perché succede inevitabilmente.

Le blocklist personali funzionano… finché non smettono di funzionare
Nel mondo degli utenti evoluti, il blocco è una pratica quotidiana. Browser che filtrano popup, adblocker come uBlock Origin considerati strumenti essenziali, DNS personalizzati che eliminano pubblicità e tracker prima ancora che arrivino al dispositivo.
Per molti, un sistema impeccabile — o quasi.
Il segreto è uno solo: le blocklist devono essere fatte bene.
Se i manutentori sono attenti, se aggiornano le liste, se c’è trasparenza, tutto funziona. Ma una sola voce sbagliata, un dominio inserito per errore o un sito innocuo confuso per pirateria può mandare all’aria intere parti del web.
Ed è proprio qui che entra in scena la nuova blocklist “Anti Piracy – Protegge Contro La Pirateria!”, che prometteva più sicurezza ma ha finito per creare il caos.

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La blocklist antipirateria che blocca… tutto tranne i pirati
La blocklist incriminata contiene oltre 11.000 domini teoricamente legati alla pirateria. In pratica, il risultato è comico e inquietante al tempo stesso:
tra i domini bloccati ci sono progetti open source, tracker legittimi, database di trasparenza, persino servizi governativi e siti di satire. Il tutto mescolato con indirizzi pirata ormai morti da dieci anni.
Insomma: un disastro totale.
Per capire il livello dell’errore:
tra i domini bloccati c’era addirittura welcometothescene.com, un progetto Creative Commons del 2004 che non ha nulla a che fare con la pirateria moderna. O siti come Jamendo, che distribuiscono musica gratuitamente in modo legale. O ancora TorrentFreak, un portale giornalistico.
È come usare una bomba per colpire una zanzara: sì, forse la zanzara la prendi… ma distruggi tutto il resto.
E mentre una blocklist privata può essere corretta in poche ore, quando lo stesso schema di errori avviene nei blocchi imposti dagli Stati, non esiste più margine di correzione. E qui il rischio diventa molto più grande.

Trasparenza vs opacità: perché gli errori personali si correggono, ma quelli dei governi no
Il caso Hagezi — l’autore delle blocklist open source più usate al mondo — dimostra una cosa: la trasparenza salva tutto.
Gli errori ci sono, ci sono sempre stati e sempre ci saranno. Ma quando una blocklist è pubblica, aperta, collaborativa, ogni sbaglio può essere individuato e corretto rapidamente.
Il blocco antipirateria imposto dai governi, invece, è l’esatto opposto:
- le liste sono segrete
- gli utenti non possono consultarle
- non esiste un organismo che gestisca gli errori
- l’overblocking “ufficialmente” non esiste
- se un dominio viene bloccato per sbaglio… buona fortuna a chi prova a contestare
La mancanza di trasparenza diventa una caratteristica, non un bug. E non è difficile immaginare come questo possa essere sfruttato: se un errore blocca un sito legittimo, nessuno lo saprà. Se blocca una voce critica, ancora meno.
È il prezzo della normalizzazione del blocco: tutti dicono che funziona, nessuno controlla davvero cosa blocca.
Il futuro del blocco? Non arriva domani. È già arrivato ieri.
La verità è semplice e un po’ inquietante: il blocco come strumento di controllo è cresciuto in silenzio per quindici anni, fino a diventare parte naturale del panorama digitale.
E quando ci abituiamo all’idea che bloccare è la soluzione, accettiamo automaticamente l’idea che sia giusto anche bloccare qualcos’altro.
Oggi è pirateria.
Domani malware.
Dopodomani… chissà.
E nel frattempo, ogni errore diventa un caso isolato, invisibile, irrecuperabile.
La differenza tra una blocklist open source e un blocco imposto dalla legge è enorme: una si può correggere, l’altra no.
E questo dovrebbe far riflettere chiunque utilizzi Internet ogni giorno.
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