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Gemini ora smaschera i video generati dall’IA: Google alza il velo sull’inganno digitale

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Negli ultimi mesi il confine tra reale e artificiale è diventato sempre più sottile. Video iper-realistici, voci sintetiche indistinguibili da quelle umane, contenuti che sembrano autentici ma che in realtà sono frutto di reti neurali sempre più sofisticate. In questo scenario, Google ha deciso di giocare d’anticipo, introducendo in Gemini una nuova funzione che promette di fare chiarezza: un rilevatore di video generati dall’intelligenza artificiale.

Non si tratta di un semplice filtro o di un avviso generico. Google ha integrato in Gemini un sistema capace di analizzare i video e individuare le impronte digitali invisibili lasciate dall’IA, separando ciò che è stato creato da una persona da ciò che è stato prodotto da una rete neurale. Un passo che segna un cambio di passo importante nella battaglia contro deepfake, manipolazioni e contenuti ingannevoli.

All’apparenza il funzionamento è semplice, ma dietro le quinte c’è una tecnologia molto più raffinata. L’utente deve caricare il video all’interno dell’applicazione Gemini e porre una domanda diretta al chatbot sull’autenticità del contenuto. Esistono però dei limiti tecnici ben precisi: il file non può superare i 100 MB e la durata massima consentita è di 90 secondi. Una scelta che rivela come lo strumento sia pensato, almeno per ora, per analisi rapide e mirate, non per archivi video di grandi dimensioni.

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Come funziona davvero il rilevatore AI di Gemini

Il cuore di questa nuova funzione è SynthID, la tecnologia proprietaria di Google progettata per inserire marcatori invisibili nei contenuti generati dall’IA. Queste “firme digitali” non alterano visivamente il video, non sono percepibili dall’occhio umano e non compromettono la qualità del contenuto. Tuttavia, per Gemini sono come una traccia lasciata sulla neve: difficile da cancellare, facile da seguire.

Quando Gemini individua la presenza di queste impronte, restituisce un messaggio esplicito, del tipo:
«SynthID rilevato in una sequenza video per un periodo da 5 a 10 secondi».
Se invece non vengono trovate tracce compatibili, l’IA segnala l’assenza di elementi riconducibili a SynthID, specificando anche se nel formato audio non è stata rilevata alcuna firma artificiale.

Qui però emerge un dettaglio cruciale, che Google stessa non nasconde: Gemini è in grado di riconoscere solo i video generati dagli strumenti di Google. Lo stesso limite vale per il rilevatore di immagini AI già presente. In altre parole, se un video è stato creato con piattaforme esterne o modelli di terze parti, il sistema potrebbe non essere in grado di identificarlo come artificiale.

Questo aspetto apre interrogativi importanti. Da un lato, Google offre uno strumento utile e concreto per aumentare la trasparenza. Dall’altro, la rilevazione non è universale, ma confinata all’ecosistema dell’azienda. Una scelta comprensibile dal punto di vista tecnico, ma che evidenzia come il problema della verifica dei contenuti AI sia ancora lontano da una soluzione globale.

Trasparenza o controllo?

L’introduzione del rilevatore AI in Gemini può essere letta in due modi. Il primo è positivo: Google riconosce apertamente il rischio di confusione tra reale e artificiale e fornisce agli utenti un mezzo per orientarsi. Il secondo è più critico: solo chi controlla la tecnologia può anche certificare cosa è autentico e cosa no.

In un futuro sempre più dominato da contenuti sintetici, strumenti come questo diventeranno probabilmente la norma. Ma la vera sfida sarà garantire standard aperti, verificabili e interoperabili, non legati a un singolo colosso tecnologico.

Per ora, Gemini fa un passo avanti. Non risolve tutto, ma lancia un messaggio chiaro: l’era dei video “inermi” sta finendo, e l’IA inizia a riconoscere sé stessa.

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