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Il “gol fantasma” di De Siervo: davvero la Nazionale perde per colpa dei pirati?

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Mettiamoci comodi, popcorn in mano e VAR mentale pronto: l’amministratore delegato della Serie A, Luigi De Siervo, ha appena regalato all’Italia calcistica l’ennesima perla di saggezza. Durante un convegno romano dal titolo altisonante – “Stati Generali della lotta alla pirateria tra legalità, sicurezza e intelligenza artificiale” – il dirigente ha tirato fuori un assist al bacio: «La Nazionale fatica perché la pirateria prosciuga i soldi dei vivai». Tradotto: se l’Italia non alza più coppe, la colpa non è di tattiche datate, stadi fatiscenti o dirigenti in eterno conflitto; è di chi streamma la partita su Telegram.

Pirati, spada laser… e vivai sguarniti

De Siervo non si limita a puntare il dito: lo brandisce come una spada laser. A suo dire, i 300 milioni di euro “rubati” ogni anno dai pirati alle pay-tv avrebbero bloccato la formazione di giovani talenti. In pratica, Donnarumma para ma il vero rigore lo tira il tizio con l’IP mascherato che guarda la Serie A in un pop-up strapieno di banner fake.

Il discorso fila liscio come un cross di Candreva: meno incassi, meno investimenti, meno vittorie. Peccato che la favola crolli appena si consultano i bilanci delle società. In molti casi, le voci di spesa principali sono stipendi monstre, commissioni agli agenti e plusvalenze creative, non certo i campetti di provincia. Eppure siamo qui a farci convincere che la differenza tra la Premier League scintillante e il nostro campionato arrugginito sia… la IPTV del cugino.

Una montagna di numeri… di carta

Ad alimentare il pathos ci pensa il solito studio FAPAV/Ipsos, che quantifica in 2,2 miliardi le perdite complessive della “filiera culturale” causa streaming illegale, con 12 100 posti di lavoro a rischio. Numeri talmente precisi da far impallidire l’algoritmo del VAR, ma tutti da verificare. Soprattutto perché si basa su un sillogismo tanto caro all’industria dei contenuti: “Se non puoi rubarlo, lo comprerai”. Peccato che, nella vita reale, molti pirati digitali non diventino improvvisamente clienti paganti quando gli togli il giochino. Semplicemente passano ad altro – o spengono la TV.

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Il prezzo del calcio (e della coerenza)

Prendiamo DAZN, che quest’anno ha lanciato abbonamenti “light” quasi a prezzo di pizza e birra. Risultato? Gli streaming illegali non sono crollati. Strano, eh? Forse – ma azzardiamo – non è solo questione di costi. È anche l’esperienza utente, la qualità delle connessioni, il bombardamento di spot e, talvolta, la curiosità di vedere se esistono alternative meno ingessate di nove app diverse per seguire tutte le competizioni.

E qui arriva la parte davvero ironica: De Siervo invoca strutture moderne e vivai scintillanti, ma dimentica che in Italia lo stadio di proprietà è più raro di un terzino sinistro decente. I fondi per svecchiare gli impianti si chiedono a gran voce allo Stato (cioè a noi contribuenti), mentre i proventi TV finiscono spesso in ingaggi e commissioni. Ma guai a criticare: la colpa è di chi clicca su “watch in HD” sotto il logo pirata.

Educare, sì. Illudere, no.

Guai a fraintendere: la pirateria è un problema reale. Uccide l’industria? Forse no. Ma di certo mina la sostenibilità di chi investe in contenuti. Serve educazione, repressione mirata e, perché no, offerte accessibili. Quello che non serve è trasformare il dibattito in una cortina fumogena per nascondere falle gestionali anni ’90 e scelte sportive che gridano vendetta in slow-motion 4K.

Se è vero che i club italiani incassano meno dei cugini inglesi, è altrettanto vero che spendono peggio. E se la Nazionale fatica, non è perché un quindicenne scarica un file PKG su un forum russo, ma perché in Primavera giocano troppi trentenni fuori quota, i centri tecnici arrancano e la governance del pallone sembra uscita da un cinepanettone.

Il meme finale? “La pirateria ci ruba la Coppa”

Finché la narrazione dominante sarà “senza pirati saremmo campioni del mondo”, continueremo a rincorrere fantasmi. A forza di vittimismi si rischia di ignorare la radice del male: l’incapacità cronica di pianificare, innovare e accettare che gli introiti TV – pure se crescessero – andrebbero amministrati con visione, non bruciati in premi di ingaggio da 5 milioni per panchinari di lusso.

In altre parole: la pirateria è un fallaccio da rosso diretto, ma non è lei che decide la classifica. Se la Serie A e la Federazione vogliono tornare in Champions della credibilità, dovranno ristrutturare stadi, formare tecnici, investire in scouting e rendere il prodotto calcio appetibile anche a chi è disposto a pagare. Altrimenti, l’unica cosa che resterà da piratare sarà la nostra pazienza di tifosi.

E ora, per favore, non date la colpa allo streaming illegale se sbagliamo un altro rigore ai Mondiali.

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