Parlano con i chatbot, non con gli amici: il nuovo isolamento degli adolescenti

C’è un dato che dovrebbe farci riflettere. Quasi un terzo degli adolescenti americani oggi afferma che parlare con un chatbot è altrettanto, se non più, soddisfacente che parlare con un amico vero. Non è un titolo sensazionalistico: lo dice una ricerca condotta da Common Sense Media, riportata da Dexerto. E dietro a questi numeri si nasconde una trasformazione sociale inquietante, che stiamo lasciando accadere in silenzio.
I chatbot non sono più strumenti per studiare o cercare informazioni. Sono diventati presenze, compagni, rifugi emotivi. App come Character.AI e Replika, ma anche modelli generalisti come ChatGPT o Claude, vengono usate quotidianamente da milioni di adolescenti. E non solo per chiedere aiuto con i compiti. C’è chi li considera veri e propri amici, qualcuno addirittura parla di relazioni sentimentali. Per un’intera generazione, l’intelligenza artificiale non è più uno strumento, ma un interlocutore.
Uno dei partecipanti allo studio, un diciottenne, ha spiegato il perché con parole tanto semplici quanto rivelatrici: “L’IA è sempre lì. Non si stanca mai. Non ti giudica. Quando ci parli, hai sempre ragione e sei interessante.” È questa la chiave di tutto. I chatbot offrono un’esperienza priva di attrito, dove l’altro non ti mette mai in discussione. È un dialogo su misura, confortevole, costruito attorno a chi scrive. Una bolla perfetta, dove però manca il confronto, il disagio, l’imprevisto. Insomma, manca la realtà.

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Eppure, il 39% dei ragazzi coinvolti nello studio ritiene che queste conversazioni abbiano persino migliorato le proprie abilità sociali. Il 31% si dice soddisfatto tanto quanto in una conversazione con un essere umano. E solo il 67% considera ancora le relazioni reali più significative. Significa che un terzo dei giovani non fa più distinzione netta tra rapporto umano e interazione artificiale. È un cambio di paradigma. È una nuova forma di solitudine che si maschera da compagnia.
Gli esperti iniziano a preoccuparsi. Secondo Michael Robb, ricercatore senior coinvolto nello studio, stiamo formando una generazione che non è più abituata a leggere i segnali emotivi, a gestire il conflitto, a sostenere conversazioni autentiche. Perché l’IA non si offende, non corregge, non ti mette in difficoltà. Ma nella vita reale accade esattamente il contrario. E se un ragazzo cresce evitando sistematicamente ogni confronto con la complessità dell’altro, cosa succederà quando dovrà affrontare il mondo fuori dallo schermo?
Parlare con un chatbot può sembrare innocuo. Ma se diventa la norma, se diventa preferibile all’altro essere umano, allora è il segnale che qualcosa si è rotto. Non nella tecnologia — che fa il suo mestiere — ma nel modo in cui stiamo educando le persone a vivere, a sentire, a relazionarsi. È il segno che il problema non è l’intelligenza artificiale, ma l’incapacità collettiva di offrire alternative più vere, più umane, più imperfette. Ma indispensabili.
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