Sorveglianza digitale nel gaming: Riot Games spia i suoi giocatori
Nel panorama in continua evoluzione della sorveglianza digitale, l’industria del gaming si sta rivelando una nuova frontiera per la raccolta di dati e il controllo comportamentale. Riot Games, un gigante del settore, ha recentemente aggiornato i suoi Termini di Servizio (ToS) in un modo che solleva seri interrogativi sulla privacy e sulla libertà di espressione. Questa mossa non si limita a monitorare il comportamento in-game, ma estende il controllo di Riot a ogni aspetto della vita dei giocatori, giustificando il tutto sotto il pretesto di garantire la sicurezza degli utenti.
Un potere senza precedenti
Il nuovo accordo consente a Riot un potere senza precedenti nel monitorare e punire i giocatori per azioni che avvengono al di fuori dei mondi virtuali di titoli come Valorant e League of Legends. Il linguaggio vago utilizzato nei ToS, che fa riferimento a “vari luoghi che toccano l’esperienza di gioco”, apre la porta a numerose interpretazioni. Cosa si intende per “condotta fuori dalla piattaforma”? Un tweet? Un post su Facebook? Una conversazione su Discord? Le possibilità sono infinite, così come il rischio di abusi.
Autocensura e cultura della denuncia
Particolarmente preoccupante è il fatto che Riot non intende monitorare attivamente i social media dei giocatori. Invece, incoraggia la comunità a fare autocontrollo, incentivando i giocatori a denunciarsi a vicenda per comportamenti che potrebbero non verificarsi nemmeno nel contesto del gioco. Ciò crea un ambiente tossico in cui i giocatori sono motivati a spiare i propri compagni, alimentando una cultura di sospetto e sfiducia, ben lontana dallo spirito di cameratismo che dovrebbe caratterizzare le comunità di gioco.
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Sanzioni severe e ambiguitÃ
Le sanzioni per violazioni di queste nuove regole sono severe, spaziando da sospensioni a ban totali. Un giocatore che trasmette in streaming un gioco Riot potrebbe essere punito se l’azienda considera il suo comportamento “problematico”. Il linguaggio ambiguo rende impossibile sapere dove si trovi il limite fino a quando non lo si è già superato. L’intento non è solo quello di combattere la tossicità in League of Legends, come afferma il game director Joe Ziegler, ma di esercitare un controllo totale sulla vita digitale dei giocatori.
Controllo del linguaggio e del pensiero
Le dichiarazioni della vicepresidente senior di Riot, Anna Donlon, che sottolinea la necessità di “fare meglio”, risultano ridicole di fronte a misure così draconiane. È facile parlare di “miglioramento” quando si detiene il potere di ban. La realtà è che Riot sta creando un ambiente in cui i giocatori devono camminare sui gusci d’uovo, temendo di esprimere le proprie opinioni per paura di conseguenze.
La dichiarazione dell’azienda secondo cui “le dichiarazioni malvagie sotto le mentite spoglie di chiacchiere meschine non sono benvenute” è inquietante. Chi decide cosa costituisce una “dichiarazione malvagia”? La risposta è Riot stessa, la quale espande continuamente la propria definizione di ciò che è accettabile. Non si tratta solo di controllare il linguaggio; si tratta di controllare il pensiero.
Tradizionalmente, l’industria del gaming è stata un rifugio dove i giocatori potevano sfuggire alle pressioni del mondo reale, un luogo dove essere se stessi senza paura di giudizi. Tuttavia, con aziende come Riot che estendono i loro ToS per includere comportamenti al di fuori della piattaforma, quel rifugio rischia di erodersi. I giocatori non sono più solo utenti; sono dati analizzati, ogni loro azione monitorata per identificare potenziali infrazioni.
Una tendenza preoccupante
Questa situazione non riguarda solo il gaming, ma evidenzia un problema più ampio sulla raccolta dati e il controllo comportamentale. Mentre aziende come Riot ampliano la loro influenza, assistiamo a una preoccupante tendenza alla sorveglianza digitale che si estende oltre i confini del gioco. È una situazione scivolosa; una volta intrapresa, non sappiamo dove ci porterà .
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