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“Ascoltavo 1300 registrazioni di Siri al giorno”: la bufala della privacy di Apple

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Un ex dipendente di una società incaricata da Apple ha rivelato un aspetto inquietante del funzionamento di Siri, l’assistente vocale tanto decantato per la sua efficienza. “Ascoltavo fino a 1300 registrazioni al giorno”, racconta l’anonimo whistleblower in un’intervista alla Radiotelevisione Svizzera Italiana (RSI). Il suo compito? Valutare se Siri rispondesse correttamente agli utenti. Ma dietro questa apparentemente innocua routine si nasconde una realtà ben più controversa: le conversazioni private degli utenti, spesso captate senza consenso esplicito, finivano sotto l’orecchio indiscreto di lavoratori precari, pagati per spiare frammenti di vita altrui.

L’articolo di RSI riporta che queste registrazioni, della durata media di 10 secondi, venivano analizzate per “migliorare il servizio”. Eppure, non si può fare a meno di chiedersi: migliorare per chi? L’ex dipendente descrive un lavoro alienante, svolto a ritmi disumani – fino a 150 registrazioni all’ora – in un contesto in cui la privacy degli utenti sembrava un dettaglio trascurabile. “Ci dicevano che era per il bene del prodotto”, afferma, ma il racconto lascia trapelare un’amara ironia: mentre Apple promuove Siri come simbolo di innovazione, il processo di perfezionamento si regge su una catena di sfruttamento umano e violazioni etiche.

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Il caso non è isolato. Nel 2019, Apple fu costretta a scusarsi pubblicamente dopo che emerse che le registrazioni di Siri venivano condivise con contractor esterni, senza informare adeguatamente gli utenti. All’epoca, l’azienda promise di limitare questa pratica, introducendo un’opzione di consenso esplicito. Ma la testimonianza raccolta da RSI solleva dubbi sulla reale efficacia di queste misure. Quante conversazioni private – da confessioni intime a discussioni personali – sono finite, e forse finiscono ancora, in mano a estranei? E quanto è credibile l’impegno di un colosso tecnologico che, nonostante le rassicurazioni, sembra incapace di rinunciare a un sistema tanto opaco?

Non mancano i dettagli inquietanti. L’ex dipendente racconta di aver ascoltato “di tutto”: da momenti banali a situazioni delicate, come litigi o conversazioni mediche. Apple, dal canto suo, si trincera dietro il silenzio, limitandosi a una dichiarazione generica: “La privacy degli utenti è una priorità”. Una frase che suona vuota, quasi beffarda, di fronte a un meccanismo che trasforma la voce degli utenti in dati da dissezionare. E se l’azienda sottolinea che le registrazioni erano anonime, resta il nodo irrisolto: l’anonimato è davvero garantito in un’era in cui i dati, incrociati, possono rivelare identità con facilità spaventosa?

Questa vicenda getta luce su un paradosso dell’era digitale: gli assistenti vocali, venduti come alleati indispensabili, si nutrono della nostra fiducia, ma prosperano su un sistema che la tradisce. Il racconto dell’ex dipendente non è solo una denuncia, ma un monito: mentre affidiamo alle macchine le nostre parole, qualcuno, da qualche parte, potrebbe starci ascoltando. E non per aiutarci, ma per alimentare un’industria che, dietro la facciata del progresso, mette in discussione i confini stessi della nostra intimità.

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