Google blocca i dati sulla censura DMCA: che fine ha fatto la trasparenza?

Dopo oltre un decennio di aggiornamenti puntuali, il celebre Rapporto sulla trasparenza di Google è improvvisamente sparito dai radar. Dall’aprile scorso, la sezione relativa alle richieste di rimozione DMCA – quelle che portano alla cancellazione di risultati di ricerca su richiesta dei detentori di copyright – non viene più aggiornata. Un silenzio anomalo, inquietante, e soprattutto inspiegabile.
Per giornalisti, ricercatori, avvocati e attivisti digitali si tratta di un vuoto improvviso che complica ogni tentativo di monitorare la censura online. Questo blackout avviene proprio in un momento storico in cui le richieste di rimozione hanno toccato livelli record, con una media stimata di 100 milioni di URL rimossi ogni settimana.
Il boom delle rimozioni e la frenata improvvisa
Dal 2012, Google aveva fatto della trasparenza un principio guida, aprendo al pubblico una sezione dedicata alle richieste DMCA ricevute attraverso Ricerca. Finalmente era possibile sapere quali URL venivano rimossi, da chi e con quale frequenza. Una rivoluzione per la libertà d’informazione digitale.
Ma ora tutto si è fermato. Il contatore è bloccato a 12,3 miliardi di URL rimossi. L’ultimo aggiornamento ufficiale risale al 13 aprile 2025. Da allora, nessun nuovo dato. Le tabelle pubbliche, le statistiche grezze e persino l’archivio scaricabile per analisi accademiche sono fermi. Tutto tace. E Google non ha fornito alcuna spiegazione.
Una censura sempre più opaca?
Questa assenza di aggiornamenti non significa che Google abbia smesso di rimuovere contenuti. Le notifiche DMCA vengono ancora inviate al database Lumen, una piattaforma indipendente che raccoglie avvisi di rimozione. Tuttavia, anche qui cominciano a emergere stranezze.
Molti degli avvisi sono pesantemente censurati. I nomi dei detentori dei diritti vengono oscurati. Gli URL segnalati appaiono troncati, modificati, irriconoscibili. In certi casi, la redazione è talmente aggressiva da nascondere perfino il dominio del sito colpito. Come nel caso di un avviso firmato per conto di Netflix, dove il dominio dell’opera violata è apparso come: n[redacted]x.com.
Secondo Lumen, queste censure non vengono applicate da loro. Sono direttamente opera di Google.

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Perché Google ha smesso di aggiornare il rapporto?
È difficile credere che un colosso come Google abbia semplicemente dimenticato di aggiornare il proprio rapporto sulla trasparenza. Per oltre 10 anni ha pubblicato nuovi dati ogni settimana, tracciando miliardi di richieste DMCA. Perché ora si ferma?
C’è chi teme un cambio di strategia interno, magari spinto da pressioni politiche, giudiziarie o commerciali. I dati sulle rimozioni, infatti, hanno permesso negli anni di smascherare abusi clamorosi: rimozioni false, richieste da parte di aziende inesistenti, errori di sistema. Tutti elementi che mettevano in imbarazzo non solo Google, ma anche i titolari dei diritti coinvolti.
Potrebbe esserci la volontà, non dichiarata, di oscurare la portata reale della censura che sta colpendo il web. Una censura legittimata dal copyright, ma che – senza trasparenza – rischia di diventare arbitraria, sistematica, incontrollabile.
Una trasparenza che si sgretola
Oggi più che mai c’è bisogno di strumenti affidabili per monitorare la rimozione di contenuti online. La battaglia legale contro la pirateria non può trasformarsi in una guerra al pluralismo informativo.
Se Google decide di bloccare l’accesso pubblico ai dati, chi controllerà i controllori? Chi potrà più distinguere tra una rimozione giustificata e un abuso?
Finché il rapporto resterà “congelato”, sarà impossibile sapere quante nuove richieste arrivano ogni giorno. Ma i numeri parlano chiaro: oltre 2,3 miliardi di URL rimossi solo da aprile 2024 ad aprile 2025. Una censura di massa, operata in silenzio.
Conclusione: trasparenza solo quando conviene?
Google rimane, nonostante tutto, uno dei pochi giganti tech a pubblicare dati dettagliati sulle richieste DMCA. Ma questo non basta più. Il congelamento del rapporto, unito alla crescente opacità dei dati condivisi, segna una svolta preoccupante.
Se davvero crediamo nella libertà d’informazione online, è il momento di pretendere spiegazioni. E soprattutto, di chiedere che la trasparenza non sia solo uno slogan, ma un impegno continuo e verificabile.
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